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"Fratelli tutti", la sfida della fraternità

Prima di sedermi e mettere insieme delle idee per commentare la lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale, Fratelli tutti, ho voluto ascoltare. E ho ascoltato tante voci! Voci più autorevoli della mia, voci polemiche, che si sono levate già prima che l’enciclica venisse pubblicata, per il suo titolo, ritenuto non inclusivo; voci che reputano questo testo banale, ridondante, che non prende in mano le responsabilità della Chiesa stessa nei processi di esclusione e di emarginazione; e voci che tacciono, davanti alle parole del Papa, perché vogliono contemplarle.

Tante voci, a cui, inizialmente, mi sembrava superfluo aggiungere la mia!

Ecco perché mi limito a invitarvi a leggere il testo e ad ascoltare quello che suscita dentro di voi. Nella speranza di potervi incuriosire, mi lascio accompagnare proprio dall’icona biblica scelta dal Pontefice: la parabola del buon samaritano.

«In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. Gli disse: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”. Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: ‘Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritornò. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ così”» (Lc 10,25-37).

Spero sia chiaro a tutti che tutto il magistero di papa Francesco, così come ogni sua parola e gesto ordinario, abbiamo espresso una scelta di fondo: quella di schierarsi dalla parte degli ultimi, degli esclusi, di coloro che la nostra società considera scarti. Il Papa è schierato, sì, dalla parte delle vittime, di quegli uomini e donne senza nome, come l’uomo vittima dei briganti della parabola, che giacciono sotto i nostri occhi, ormai abituati a giustificare l’indifferenza, la non curanza, il rifiuto.

Il prossimo per papa Francesco - in continuità con il Vangelo - non è solo chi abbiamo accanto, colei o colui con il quale, nella peggiore delle ipotesi, facciamo fatica a relazionarci, no! Il prossimo è proprio colei e colui che non vorremmo vedere, la cui esistenza ci sconvolge, ci provoca a fermarci, e, proprio per questo, ci fa fuggire, andare oltre, come il sacerdote e il levita della parabola. “Nella società globalizzata, esiste una maniera elegante di guardare dall’altra parte che si pratica abitualmente: sotto il rivestimento del politicamente corretto o delle mode ideologiche, si guarda alla persona che soffre senza toccarla, la si mostra in televisione in diretta, si adotta anche un discorso all’apparenza tollerante e pieno di eufemismi” (n. 76 Ft, cita il Messaggio in occasione dell’Incontro dei movimenti popolari, Modesto – Usa, 10 febbraio 2017).

Il mondo non è certamente fatto solo di “briganti”, ma non basta un cristianesimo di buone maniere che guarda da lontano alle sofferenze delle donne e degli uomini. Credo che questa possa essere una prospettiva da cui leggere il testo di questa enciclica, definita, socio-politica. Sì, è vero, il Papa si rivolge a ogni donna e uomo di buona volontà, ai politici, ai governanti, a tutte le agenzie culturali, non solo ai battezzati, ma lo fa dal punto di vista di una Chiesa che per secoli ha considerato il mondo come nemico, dalla cui secolarizzazione difendersi. E questo deve essere tenuto in considerazione soprattutto da noi credenti, quando pensiamo “che la (nostra) grandezza consista nell’imporre le proprie ideologie agli altri, o nella difesa violenta della verità, o in grandi dimostrazioni di forza” (n.91 Ft) .

Con questa lettera al mondo, Papa Francesco torna a scuotere le nostre coscienze, a chiederci di guardarci dentro, di scoprire la mentalità violenta e usurpatrice, da briganti, che ci abita, come anche l’irresponsabilità, la fretta, la superficialità e la mancanza di empatia di cui siamo impregnati, tanto quanto il sacerdote e il levita. Ci chiede di uscire allo scoperto, di farci iniziatori di cambiamenti, di non attendere il soccorso degli altri, di farci noi per primi soccorritori e, così, anche profeti, costruendo cammini che diano anche ad altri la possibilità di conoscere e fare il bene. Come il samaritano che si ferma, appresta le prime cure, ma poi affida l’uomo aggredito dai briganti alle cure più certe dell’albergatore, senza lavarsene le mani, ma con la fiducia di chi sa che solo insieme si può fare!

Non posso non essere d’accordo con chi dice che questo lungo testo ridonda di quelle che sono conquiste a cui la società civile tende già da secoli, evidenziando come la Chiesa in questo processo sia rimasta parecchio indietro. Penso alle tante realtà umanitarie istituzionali o private che operano in rete facendosi prossimo di tanti sorelle e fratelli che cercano dignità. Ecco perché mi sento di invitarvi a leggere questo testo con uno sguardo capace di autocritica per riconoscere che la Chiesa cattolica per prima ha bisogno di risvegliare il suo spirito samaritano!

Ci siamo ridotti a relazioni di piccoli gruppi, dimenticando – come, invece, ci ricorda il Pontefice al n.89 di Fratelli Tutti – che “è impossibile capire me stesso senza un tessuto più ampio di relazioni”; “la nostra relazione, se è sana e autentica, ci apre agli altri che ci fanno crescere e ci arricchiscono” (ancora n.89 Ft), “nessuno matura né raggiunge la propria pienezza isolandosi” (n. 95 Ft).

Tutti pungoli alle nostre poche e insicure certezze. Tutti tasselli per “pensare e generare un mondo aperto”, per costruire una cultura della cura, della tenerezza, dell’incontro, del dialogo, della fraternità e dell’amicizia sociale; non un élite culturale, ma una cultura che riguardi ogni popolo, proprio il popolo che papa Francesco tanto ama.

Espressioni tanto più evocative in un tempo in cui ci viene chiesto responsabilmente di stare distanti, e in cui tali distanze rischiano, però, di frammentare ulteriormente le divisioni che abitano la nostra società.

La fraternità e l’amicizia sociale di cui parla Francesco, non nascono dalle nostre buone intenzioni, ma dalla coscienza di essere figli di un Padre buono, “soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace tra noi” (n. 272 Ft).

“A partire dalla nostra esperienza di fede e dalla sapienza che si è andata accumulando nel corso dei secoli, imparando anche da molte nostre debolezze e cadute, come credenti delle diverse religioni sappiamo che rendere presente Dio è un bene per le nostre società. Cercare Dio con cuore sincero, purché non lo offuschiamo con i nostri interessi ideologici o strumentali, ci aiuta a riconoscerci compagni di strada, veramente fratelli” (n. 274 Ft).

Sentiamolo rivolto a noi stessi: “Va’ e anche tu fa’ cosi”! (Lc 10, 37).

Maria Giovanna Titone csj

 

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