Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento del sito. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.
Un’ interessante conversazione via WhatsApp, quella con padre Jeans Petzold della comunità monastica cattolica-siriana di Mar Musa. Padre Petzold si trova a Sulaymaniyya, nel Kurdistan iraqueno, e da lì ci ha offerto il suo punto di vista sulla crisi umanitaria di quei territori e sulla, non meno urgente, crisi di umanità in Europa.
Lei dove si trova esattamente? E da quanto tempo?
A Sulaymaniyya, nel Kurdistan iraqueno. Sono qui da otto anni.
Qual è la sua missione in questi territori?
La nostra è una comunità monastica, fondata dal gesuita padre Paolo Dall’Oglio, è nata per solidarizzare con la Chiesa orientale e con il mondo islamico. Tra il 2011 e il 2012, il vescovo della diocesi ci ha invitati a occuparci di questa chiesa, che oggi non è più parrocchia, e ospita la nostra comunità. La comunità si occupa anche di una realtà parrocchiale fuori dal centro storico, nella zona moderna della città di Sulaymaniyya, in cui si sono trasferiti i cristiani. Prima ero stato per 16 anni in Siria. Ho visto da lontano l’inizio della guerra civile in Siria. Con l’invasione, nel 2014, da parte del Daesh (Stato islamico) dei territoro iracheno, abbiamo vissuto l’emergenza dei milioni di sfollati.
Può darci qualche numero?
Prima che lo Stato islamico invadesse i territori dell’Iraq, il Kurdistan aveva quattro milioni di abitanti. Dopo l’invasione, migliaia di sfollati si sono spostati nella regione curda. Questo ha fatto sì che nel giro di pochi mesi la regione curda si sia trovata con quattro milioni di rifugiati che parlavamo un’altra lingua, l’arabo e non il curdo. Dunque, nel giro di pochi mesi la popolazione dello stesso territorio si è pressoché raddoppiata.
Come si è fatto fronte a questa emergenza?
La cosa che più di tutto mi ha colpito è stato il fatto che non si sono poste molte difficoltà sociali. La popolazione ha risposto con grande generosità. Nella nostra comunità abbiamo accolto 250 sfollati. Nella parrocchia vicino 350-400 sfollati. Tutta la comunità cristiana ha accolto 5.000 persone. I cristiani di Sulaymaniyya era non più di 1.200 e hanno accolto 5.000 sfollati.
Come avete fatto?
Il Consiglio della parrocchia ha lavorato dalle 7 del mattino alle 24 della notte, per chiedere cibo, per organizzare posti per dormire, tende, letti. Questo finché non si è riusciti a trovare una dimora più degna. Nella nostra chiesa per un anno e mezzo hanno vissuto 60 persone. Avevamo separato le zone con delle stoffe e ci siamo ricavati un piccolo spazio per pregare.
Come avete trovato gli aiuti?
Una parte degli aiuti è arrivata dalla provincia stessa di Sulaymaniyya. Altra parte dall’organizzazione per i rifugiati dell’Onu. In seguito, sono arrivato gli aiuti delle Opere della Chiesa. Ad esempio, dalla comunità austriaca e da privati, sono arrivati sia aiuti diretti che mediati da organizzazioni ecclesiali. Un altro esempio è il grande sostegno ricevuto dall’Aiuto alla Chiesa che soffre.
C’è stata una grande cooperazione sia a livello nazionale che internazionale. Proprio la comunità cristiana ha ricevuto diversi aiuti, oltre agli aiuti statali e delle organizzazioni internazionali, anche gli aiuti delle organizzazioni della Chiesa. È stata loro assicurata la possibilità di avere chiese in cui pregare e celebrare L’Eucaristia. E sin da subito si è mossa un’organizzazione per assicurare la scuola e le attività per i più piccoli.
Fronteggiata l’emergenza dell’accoglienza e dei bisogni primari, quali sono state le difficoltà che si sono presentate?
Il problema principale per chi si trova nella condizione di sfollato è l’incertezza del futuro. Questo è motivo di grande angoscia. Angoscia per tutto quello che si è lasciato; angoscia per chi è rimasto; angoscia per l’incertezza se poter tornare o meno. Durante le prime settimane, osservando molti dei nostri accolti, li vedevamo trascorrere le loro giornate seduti. Era faticoso per loro tornare alla normalità. I rischi di depressione erano fortissimi. Ci siamo così impegnati ad organizzare delle attività per impegnarli. In tante Chiese si sono organizzate scuole per i bambini. Le scuole statali non erano preparate ad accoglierli. Nella nostra comunità, ad esempio, abbiamo iniziato con una scuola primaria che ha dato un ritmo alla nostra realtà di 250 accolti. È stato utile per iniziare a superare il trauma.
Questi aiuti erano rivolti solo ai cristiani o anche agli altri?
I cristiani hanno ricevuto aiuti migliori rispetto agli arabi e ai sunniti.
Come ha visto cambiare il volto dell’Islam in questi anni?
Durante gli anni Sessanta l’Islam è stato fortemente influenzato dalla guerra fredda e dai regimi che non hanno permesso una discussione libera sulla religione. Una versione estremista dell’Islam ha conosciuto una rapida diffusione cambiando l’immagine dell’Islam stesso. Questo è stato un cambiamento molto doloroso. L’Islam tradizionale, però, continua, nella sua molteplicità di espressioni, ad avere relazioni di rispetto esemplare con i cristiani.
Quali sono le responsabilità della comunità internazionale, secondo lei?
Nella situazione del Kurdistan grandi responsabilità. Ciò che sta accadendo nel nord della Siria si poteva evitare. Così come non sono lungimiranti le scelte politiche in Iraq, con 400mila civili morti e sei milioni di rifugiati in Siria. Si poteva fare tanto per evitare questo. A ciò si aggiungono le responsabilità della politica locale. Ad esempio, la scelta di utilizzare, nell’alleanza contro l’Isis, armi di distruzione molto potenti e di distruggere la citta di Mosul, sono scelte dei generali locali. La comunità internazionale ha la responsabilità di avere messo nelle mani di questi generali, non capaci di fare scelte tattiche e strategiche, armi potenti. Queste armi non vengono dalla Siria e dall’Iraq, ma dai Paesi industrializzati. C’è da domandarsi quanto vale tutto questo per la nostra economia…
In Europa, nella nostra Italia, assistiamo quotidianamente al crescere di episodi di razzismo, diffidenza e paura dello straniero. La politica stessa cavalca queste paure per affermare posizioni sovraniste. Lì, a fronte di questa emergenza umanitaria, si sono vissute delle tensioni?
Ci sono stati dei momenti difficili. C’è chi critica e si oppone all’accoglienza dei rifugiati. Questo però si registra a livello politico. La popolazione – questo mi ha toccato – si è aperta all’accoglienza. Il Kurdistan, tra il 1992 e il 1993, è sfuggito all’assalto di Saddam Hussein. Il popolo ricorda bene cosa significa vivere la condizione di sfollati e di rifugiati. Questo li ha aperti ad accogliere anche i “nemici”, rappresentati dagli arabi che prima erano mandati da Saddam. Un piccolo miracolo. Certamente si vive l’angoscia per la crisi economica e politica, ma prevale la solidarietà fra le persone. Sul piano politico, una parte ha problemi con questa generosità. Ad esempio, nel mondo della scuola ci sono delle resistenze ad accogliere i rifugiati siriani e gli sfollati iraqueni.
Però, ripeto, è un miracolo la solidarietà registrata nella popolazione. Un villaggio vicino Sulaymaniyya, in piena crisi economica, ha accolto e sostenuto 150 sfollati per diversi mesi, prima che arrivassero gli aiuti. Durante l’invasione americana in Siria, sono entrati in Siria due milioni di iracheni e la popolazione li ha accolti. La popolazione mediorientale è grande nella generosità e nell’accoglienza. Le strutture statali non sono all’altezza della generosità della popolazione. In Europa c’è una grande paura nella popolazione. Qui non c’è! Non hanno paura dei bisognosi.
Cosa direbbe all’Europa?
L’Europa ha perso, a mio avviso, la sua visione. Abbiamo lottato per vincere l’ignoranza, per l’educazione, per saperne di più. Ma questo non ha dato frutto. Qui le persone semplici che accedono alla scuola non hanno dimenticato che l’istruzione serve per migliorare la vita insieme. Non capisco l’Europa. Ho vissuto con 250 rifugiati. Era difficile, sì, non sempre ci capivamo. Eravamo cristiani di culture diverse. Volevamo cose diverse. Questo ci ha messo discussione, e ci ha fatto crescere. In Europa non siamo più capaci di metterci in discussione. Siamo la patria dei pensatori, degli esploratori, degli inventori, degli artisti e dei poeti, ma abbiamo perso la curiosità. Abbiamo perso la curiosità e l’interesse verso l’altro. Sono molto rattristato dal vedere l’Europa che cerca facili soluzioni, come chiudere i confini, alzare muri… Le soluzioni facili sono disastrose. Non ci sono soluzioni facili, esistono soluzioni complesse fondate su principi semplici, come l’accoglienza. Non è possibile lasciare morire persone in mare; non è possibile lasciare morire delle persone di freddo perché le frontiere sono chiuse. Abbiamo dimenticato di avere cura del resto del mondo. I Paesi colonizzatori hanno una grande responsabilità in questo. Dovrebbero aiutare questi Paesi ad uscire dalla corruzione che hanno loro insegnato, attraverso politiche che ridiano loro dignità.
Che speranze ha?
Sin da piccolo ho desiderato che i Paesi occidentali aiutassero quelli in difficoltà a diventare Paesi con una dignità di vita. Dal punto di vista economico questo sarebbe possibile consentendo a tutti di avere accesso ai mezzi di approvvigionamento e produzione, rendendo il mercato più ampio. Un sogno che ho è che ogni grande nazione rinunci all’acquisto di un tipo di armi e investa queste somme a favore dello sviluppo. Basterebbe solo rinunciare all’acquisto di un tipo di armi!
Come possiamo aiutarvi da qui?
Tenete i contatti con le persone del luogo, guardando oltre la cristianità, al dramma che vive l’Islam. È importante essere coscienti che le cose non sono nere o bianche. Ecco perché è importante, lì dove è possibile, andare a fare esperienze personali, vedere con i propri occhi. Importante è che la popolazione senta la solidarietà. E poi investire su progetti di sviluppo che creino futuro. È molto importante garantire che i bambini accedano alla scuola. Se non facciamo qualcosa nei campi profughi contribuiremo a creare i terroristi del domani. Sono 50mila i bambini usati dal Daesh. Solo se diamo loro un’educazione e una visione di vita possiamo orientare questa generazione a non scegliere la violenza. Stessa cosa è importante che avvenga in Europa, provocando la curiosità dei giovani e degli adulti per recuperare quello spirito da esploratori che ha segnato la storia attraverso figure come Matteo Ricci e Marco Polo.
Quali sono i bisogni più urgenti?
L’educazione. E poi nella pianura di Ninive dove si trovano le giovani famiglie cristiane e musulmane, manca il lavoro. Occorre rifondare il commercio e l’industria per dare prospettive di vita dignitose a queste famiglie. Mettere al primo posto la dignità della persona e la possibilità di vivere bene nel proprio paese. Queste sono soluzioni! Non l’alzare muri e chiudere i confini. La storia ce lo insegna. E occorre anche ripensare alla visione dell’economia il cui fine non possono essere solo i profitti, ma soprattutto rendere un servizio all’uomo. Questo avrebbe dovuto insegnarci la crisi economica occidentale.